Di Ismete Selmanaj Leba
07/10/2019
Le stelle di San Lorenzo
La scia di schiuma si perdeva nell’immensità del buio, il rumore dell’acqua era diventato per tutti un elemento quasi familiare e pregavamo, ognuno implorava il suo Dio nella speranza che il mare restasse calmo e non inghiottisse il piccolo mezzo sgangherato con il quale eravamo partiti. E non era nemmeno tanto strana la sensazione che si provava per quel suono dello sciabordio dell’acqua che in fondo era l’unica cosa a cui potevamo consegnare le nostre speranze al punto da sembrare che nemmeno ci si accorgesse più della sua costante presenza e del rumore, del vento che la accarezzava e dell’incognito che si nascondeva nel nero del buio profondo in quella notte senza luna. Stavamo lì in mezzo al mare da giorni e il sale si era cristallizzato sulla nostra pelle che al sole bruciava come se ci avesse appena punta un’ape, forse in tanti di noi ci chiedevamo il perché avessimo scelto quella strada per fuggire, molti si chiederanno anche da cosa e da chi fuggivamo. Certezze? Nessuna. Possibilità? Poche. Speranza? Tanta. Forse era davvero l’unica ragione che ancora alimentava e illudeva le nostre esistenze, tanti i volti che smarrivano i loro sguardi nel buio di quell’immensità, nelle profondità dove tante mani si alzano verso l’alto per chiedere almeno un perché, mani ancora attaccate a corpi senza vita, mani che non stringeranno più altre mani, vite e corpi spenti per sempre nel silenzio e nel buio gelido di quel mare sfidato per un approdo sicuro, per la prospettiva di una vita migliore, per una dignità che tutti avrebbero il diritto di avere. Sono seduta in questo angolo, il mio corpo è madido perché non riesco ad evitare gli spruzzi di acqua provocati dalle onde che continuano ad infrangersi vicino alla fragile plastica e al fradicio legno di questa barchetta che adesso rappresenta, pur nella sua vulnerabilità, il nostro mondo e poi chissà! Non posso affermare che sia la nostra salvezza, non lo so per davvero, forse nessuno ci crede fino in fondo ma il capo, il libico, ha preso tutti i miei soldi, tanti, e ha preteso che pagassi anche per la mia bambina; non gli importa del fatto che non occupa spazio perché la tengo stretta al mio petto, non sappiamo nemmeno dove ci sta portando, ci ha solo ordinato di stare in silenzio e di non muoverci per nessuna ragione. Prima di adesso non sono mai stata lontana dalla mia casa e dal mio villaggio, sono partita con un nodo alla gola, tanti sono gli affetti che ho dovuto lasciare e negli occhi ho ancora le lacrime di mia madre anziana e malata, lei non voleva che andassi via, spero che un giorno possa capire che l’ho fatto non solo per Efua ma anche per lei, almeno in questo ci spero. La gola brucia da morire ma non è per il freddo, credo sia per colpa di tutto il fumo nero che fuoriesce dal motore che a tratti sembra sul punto di volersi fermare, preghiamo in silenzio che non accada, altrimenti non so che cosa ne sarà di noi. Ho sete al punto che le labbra e la lingua sono secche e screpolate, sono tentata di prendere la bottiglietta che ho riempito al porto da dove siamo partiti, la conservo nascosta tra i miei seni, qualcuno potrebbe rubarmela mentre chiudo gli occhi anche solo per un attimo, è acqua per la mia bambina e spero che basti perché ormai è da tempo che dalle mie mammelle non esce più latte, lei è cresciuta con quello delle poche capre che allevavamo. Per fortuna ancora non piange per la fame, non ho nulla da darle tranne la piccola quantità di acqua. Nessuno qui ha nulla e semmai avessimo avuto qualcosa di sicuro ce lo avrebbero rubato. I suoi occhi neri restavano fissi e fermi a guardare nei miei, restava tranquilla e attaccata al mio petto, la pensavo serena ma il suo sguardo mi smentiva e il suo silenzio mi interrogava, anche io nella mia mente continuavo a farlo e senza concedermi un attimo di pausa a scrutarmi nei miei pensieri e a chiedermi se domani avremmo visto la terra, se qualcuno ci avesse salvati. Una notte senza luna ma in compenso il cielo era come una grande coperta di stelle, ogni tanto qualcuna cadeva e la sua scia illuminava, anche se solo per un attimo, il nero che ci circondava. Dovrebbe essere più o meno il dieci di Agosto perché siamo partiti la sera di due giorni fa ed era appunto il giorno otto. Tremavo e le ferite dell’anima facevano tanto male, ma salire su quella barca era il solo modo per scappare dall’incubo e dall’orrore anche se da quel momento avrei dovuto fare i conti con il tormento dei miei ricordi e con i fantasmi che affollavano i miei pensieri. Non mi toccare ti dicevo, lasciami stare, abbi pietà e ti imploravo. Non ti fermasti nemmeno davanti allo sguardo impaurito della mia bambina, eri senza vergogna, maledetto ora per allora, mi violentasti senza scrupoli e mi urlavi puttana. Oltre al mio corpo ferivi anche la mia anima perché fino a quel momento non ero mai stata una prostituta, la mia piccolina un papà lo aveva anche se era scomparso nella milizia dei ribelli dove si era aggregato per combattere in nome della libertà, era saltato su una mina antiuomo e il suo corpo si era ridotto ad un ammasso di brandelli di carne. Questo ci era stato detto da un ragazzo che aveva rifiutato il fucile ed era ritornato al villaggio scappando dal gruppo e vagando tra le mille difficoltà e pericoli della foresta. Ogni sera mi tormentavi, ma tu eri il libico e dovevi soddisfare le tue voglie su di me che consideravi la tua negra, la tua schiava o la tua cagna come spesso mi chiamavi, umiliavi la mia anima e calpestavi la mia dignità di donna e di mamma; non ero e non contavo nulla per nessuno, se fossi morta o se fosse accaduto di lì a poco nessuno lo avrebbe saputo mai, sarò solo uno dei tanti corpi che il mare mosso a pietà restituirà su qualche spiaggia oppure diventerò il pasto per qualche specie marina che si nutre di cadaveri. Senza pietà, in quel posto i sentimenti erano morti da tempo o forse non erano mai esistiti, sarà stata la fame e la guerra che avevano fatto fiorire semi di odio e di cattiveria incontrati più volte in quella maledetta prigione dove per qualche mese sono stata segregata e senza aver commesso nessun reato, senza la possibilità di difendermi anche perché non vi erano motivi che giustificassero la restrizione alla mia libertà, perché in fondo scappavo per essere libera e in quel momento qualcuno, senza averne diritto, si autorizzava a privarla non solo a me ma a tutti quelli che cercavano di guardare l’occidente come risposta ad una vita più dignitosa, più giusta e con meno diseguaglianze. Non ti bastavo solo per te stesso perché poi ti presentasti con altri tuoi amici e ridevi come un matto mentre gli altri montavano sul mio corpo e il loro alito fetido si insinuava tra i miei seni, la mia bambina piangeva ed era vicino a me a guardare l’orrore. Schiaffi, pugni e sputi, queste cose non riuscirò mai a spiegarmele e come potrei farlo, come poterle anche solo dimenticare. Adesso mentre vaghiamo nel nulla e verso l’ignoto mi assale un dubbio atroce, così forte che mi lascia senza respiro; ho un ritardo, sono passati cinque giorni e le mie regole non sono ancora arrivate. Adesso sì che mi sento una puttana, ora sarebbe vero anche il fatto che non saprei dire chi fosse il padre, speriamo che sia solo un dubbio e che quando spunterai di nuovo il sole questo triste pensiero possa sparire insieme alla notte. E se fosse tutto vero? E se fossi rimasta incinta? Un bambino senza padre e senza colpe, cosa gli racconterò un giorno, cosa gli dirò quando mi chiederà di te dal momento che nemmeno io so chi sei? Dovrei mostrargli i segni delle bruciature che i bastardi e la loro infamia hanno lasciato sulle mie gambe quando spegnevano le loro sigarette nella mia carne e tappavano la mia bocca per non farmi urlare per il dolore. Dormi bambina mia, sogna di correre felice e di giocare con tanti bambini dove i colori siano solo quelli di una scatola di pastelli, dove fare il girotondo possa essere anche una mano a cui stringersi per sentirsi al sicuro. Mentre penso a tutte queste cose e a quello che desideravo di veder realizzato nella mia vita e in quelle di tutti coloro che per necessità si mettono in cammino, cerco ancora di dare uno sguardo al mio dolore, andare a guardarlo ogni tanto non è farlo per attribuirmi il ruolo non voluto e nemmeno mai pensato di vittima, piuttosto è il modo per trovare la forza che mi permetterà di sopportarlo se avrò anni da vivere. Il sole comincia ad illuminare il cielo, l’alba di un nuovo giorno ci vede ancora in mezzo al mare che questa mattina non è più calmo e tranquillo come ieri, tutto intorno le onde arrivano come una mandria e ho tanta paura, i miei piedi sono immersi nell’acqua e ho freddo perché il sole non riesce più a riscaldarmi. Sono terrorizzata nel guardare qualcuno che si affanna con alcuni barattoli vuoti di birra per togliere acqua nella speranza di svuotare la carretta del mare alla quale abbiamo affidato tutte le nostre speranze e la salvezza, gli animi iniziano ad agitarsi e la paura comincia ad essere la padrona dei nostri gesti. Ci guardiamo negli occhi ed ognuno non riesce a fare a meno di girarsi in cerca di qualcosa e di qualcuno, scrutare l’orizzonte per cercare il volto o le mani della speranza. Un punto in lontananza sembra che venga verso di noi, si urla per farci notare e un ragazzo che mi era seduto accanto riceve dal capo un pugno in faccia e un calcio nello stomaco per il fatto che si agitava troppo e questo secondo lui sbilanciava l’equilibrio del natante. Guai se qualcuno di voi dirà che sono io il traghettatore, vi cercherò in ogni parte del mondo e vi taglierò la gola. Tutti abbassammo la testa in segno di approvazione e nessuno avrebbe svelato particolari sulla sua identità. Intanto la salvezza era a un passo da noi, troppa la gioia da contenere, un movimento sbagliato e un ragazzo poco più che ventenne cadde in mare, nessuno cercò di aiutarlo, scomparve subito e le sue mani sono ancora rivolte verso l’alto a cercare un perché. Tante furono le parole che mi vennero rivolte, finalmente i miei piedi poggiavano su legno asciutto; una ragazza in pantaloncini azzurri e maglietta bianca si avvicinò al mio gruppetto e in inglese mi chiese qualcosa, non riuscii a comprenderla perché capivo e mal pronunciavo solo poche cose ma in francese. Bastarono i gesti per farmi capire che voleva dedicarsi a mia figlia, l’affidai alle sue braccia che mi sembrarono amorevoli e a pelle percepii che da quel momento potevo anche fidarmi…
Armando Pirolli è nato ad Aversa(CE) nel 1965, abita e vive tuttora nella propria città. Dopo la Maturità Magistrale percorre varie strade ma alla fine si avvicina al corso per infermieri professionali che svolgerà presso l’Ospedale Civile di Caserta, attualmente lavora alla UOSM 17/18 (centro salute mentale) della propria città. Tre anni fa il suo cuore inizia a fare qualche capriccio, attraverso la penna avverte il bisogno e la necessità di raccontare in un modo per lui completamente nuovo la vita. “Ti Racconto il mio O.P.G.” il suo romanzo di esordio, viene pubblicato e ottiene un lusinghiero successo. Pluripremiato e più volte recensito, La Repubblica del 22 aprile 2017 ( Perché in quelle vite sfortunate, l’umanità, nonostante la violenza e i reati commessi, resiste in gesti di candida purezza, Chissà cosa c’è li dentro? Chissà cosa si nasconde li dentro? Una voce, quella di un infermiere, per dare voce a chi di voce non ne ha mai avuta. Seguono : “A ottobre non sempre cadono le foglie” dove la forza di raccontare un abuso diventa vita, coraggio e consapevolezza, poi è la volta del “Il Bacio degli Opposti” dove la diversità di genere diventa elemento di riflessione e condivisione. A breve sarà pubblicata una biografia per un campione mondiale di kick boxing e in primavera uscirà il nuovo romanzo dal titolo: Il vento avrebbe detto:sì!