Ad Acicastello (CT) un team di esperti ha fatto il punto sul virus HCV e sull’obiettivo dettato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità: sradicare l’infezione entro il 2030.
Identificare specifici setting di pazienti positivi al virus HCV dell’epatite C, spesso inconsapevoli del loro stato di portatori di infezione: questa è la parola d’ordine degli specialisti riuniti nei giorni scorsi ad Aci Castello (CT) nell’incontro promosso da Gilead, che ha visto la partecipazione dei maggiori esperti nel campo dell’epatologia siciliana impegnati nel raggiungimento del traguardo indicato dell’OMS, ovvero l’eradicazione dell’infezione entro il 2030.
Le nuove frontiere ad azione antivirale diretta sono in grado di modificare la storia naturale della malattia cronica con la possibilità di guarigione oltre il 95%.La Sicilia rappresenta senza dubbio un modello virtuoso nella definizione dei percorsi terapeutici e nell’erogazione delle cure: la rete HCV Sicilia, riconosciuta con decreto della Regione, è in grado di collegare in maniera telematica i centri ospedalieri del territorio autorizzati alla diagnosi e alla terapia dell’HCV, consentendo così di identificare i pazienti con infezione cronica da virus, di definire lo stadio della malattia e allocare i pazienti alla terapia per loro indicata con appropriatezza.
In Sicilia sono oltre 15.000 e circa 2.200 quelli in attesa di trattamento, scelti sulla base degli 11 criteri di prioritizzazione stabiliti da AIFA.
“Al momento attuale stiamo assistendo ad un cambiamento molto importante a livello normativo, ovvero l’aggiunta da parte di AIFA del criterio 12 per il trattamento dei pazienti con Epatite C cronica. Si tratta di un notevole passo avanti che consentirà ai medici di utilizzare un criterio diagnostico in grado di facilitare l’accesso alle cure – ha affermato Antonio Craxì, ordinario di Gastroenterologia all’Università di Palermo – I pazienti, infatti, potranno essere diagnosticati e avviati al trattamento in assenza di uno screening estensivo, come ad esempio il Fibroscan. Per ora questa metodologia si applicherà solo alle terapie antivirali di ultima generazione pangenotipici e riguarderà solo alcuni contesti, quali i serD (servizi pubblici per le dipendenze patologiche del Sistema Sanitario Nazionale) e le carceri.”
In particolare queste categorie di pazienti meritano un’attenzione particolare in termini di prevenzione e di cura, perché a più alto rischio di trasmissione dell’infezione.
“Da un punto di vista epidemiologico e di sanità pubblica occorrerebbe prendere in considerazione le categorie con un’alta probabilità di trasmettere il virus a persone siero-negative: la prevalenza di epatite C è stimata tra il 7.4% e il 38% su un totale di 56mila detenuti in Italia, tra l’altro queste persone sono spesso co-infette HIV-HCV, hanno altre co-morbosità e sono costrette ad assumere numerosi farmaci che possono portare problemi di aderenza alla terapia e di interazioni farmacologiche spesso difficili da prevedere, quindi sono pazienti che necessitano un monitoraggio molto attento” – ha aggiunto Craxì.
In generale, comunque i pazienti coinfetti HIV-HCV sono pazienti a più alto rischio di progressione di malattie epatiche ma anche di malattie extra epatiche (cardiovascolari, renali, ossee e del sistema nervoso centrale), rispetto al paziente mono infetto, quindi necessitano di un trattamento in fase più precoce per il controllo dell’infezione da HCV.
Le strategie terapeutiche per fronteggiare il futuro e raggiungere l’ambizioso obiettivo di eliminazione dell’HCV entro il 2030 necessitano della collaborazione tra tutti gli stakeholders: società scientifiche, associazioni di pazienti e clinici per identificare quei pazienti spesso inconsapevoli del loro stato di portatori di infezione e di stabilire fin dalla diagnosi una strategia terapeutica adeguata.
Nella foto: il prof. Antonio Craxì.