Uno degli album che nel 2020 compirà 50 anni, è “La buona novella” di Fabrizio de André. Pubblicato nell’autunno del 1970, vale la pena anticiparne le celebrazioni in questa settimana, dato l’argomento di cui parla.
Come il precedente “Tutti morimmo a stento” e come alcuni dei successivi, si tratta di un cosiddetto “concept album”, un vero e proprio romanzo basato sulla storia di Gesù Cristo, visto però da una prospettiva più umana e per niente divina, e raccontato prendendo spunto dai Vangeli apocrifi, che de André riteneva molto più interessanti di quelli scritti dagli Evengelisti che lui definiva “l’ufficio stampa”.
Prodotto da Roberto Dané e arrangiato da Gian Piero Reverberi, fu suonato dal gruppo dei Quelli, che sarebbero presto diventati la Premiata Forneria Marconi.
A rimarcare l’importanza degli argomenti trattati e della forma utilizzata, nelle note dell’LP de André racconta un episodio, in cui i musicisti, “dopo due giorni di distaccata collaborazione hanno dimenticato gli spartiti sui leggii” e sono andati a chiedergli “perché hai fatto questo disco, perché hai scritto queste parole?”.
Non sembra esserci un solo punto debole nell’intero album, riuscitissimo sia dal punto di vista musicale che delle liriche, e persino della voce, accurata ed attenta ad enfatizzare i singoli momenti con le giuste sfumature, fino ad apparire a tratti monumentale.
L’album fu criticato dal suo pubblico più intransigente, che si aspettava un maggiore “impegno” politico e gli rimproverava di essere uscito, in piena rivolta sociale, con un disco che raccontava di fatti avvenuti quasi 2000 anni prima, e peraltro già noti a tutti.
L’autore attribuiva invece alle nuove canzoni una enorme carica rivoluzionaria, considerando Gesù Cristo “il più grande rivoluzionario della storia”, ovvero uno che aveva sostenuto, quasi duemila anni prima, le stesse istanze, le stesse aspirazioni, le stesse lotte, aggiungendo ad esse però un elemento straordinario: il perdono.
Il disco inizia con una volutamente fuorviante “Laudate Dominum”, una vera e propria falsa partenza studiata ad hoc.
Infatti, subito dopo, con “L’infanzia di Maria”, parte la raffinata, delicata, poetica narrazione delle vicende UMANE dei noti personaggi.
La piccolissima Maria, a soli tre anni, per bisogno “o peggio per buon esempio”, viene rinchiusa nel tempio, dove trascorre le giornate “tra cibo e Signore”, privata dei suoi giochi e della sua libertà, fino a che, a causa del normale fiorire della sua femminilità, viene considerata indegna di rimanervi, e viene cacciata organizzando una sorta di “lotteria” per trovarle un marito.
La delicatezza del racconto e della descrizione di Maria è pari alla morbosità degli sguardi della folla radunata, espressi dal magistrale coro, finché non viene assegnata a Giuseppe, l’unico che non la vedeva come una “tentazione”, ma come la bambina che era.
Questi però deve partire per un lungo lavoro, e “Il ritorno di Giuseppe” descrive lo stato d’animo del falegname che rientra, dopo quattro anni, a casa, recando in dono a Maria una bambola di legno, da lui costruita con l’intenzione di restituirla a quei giochi lasciati da piccola.
Anche qui, le atmosfere ed i paesaggi del viaggio vengono mirabilmente resi dalle parole e dalla musica che creano una visione d’insieme, immergendo l’ascoltatore nel deserto a respirare la stessa sabbia di Giuseppe e del suo “asino dai passi uguali”.
E come in una visione cinematografica, vengono descritte con precisione l’innocenza e la delicatezza di Maria nonché lo stupore e l’incredulità di Giuseppe, nello scorgere l’inequivocabile “forma precisa d’una vita recente”.
Il successivo “Il sogno di Maria” altro non è che il racconto della protagonista volto a spiegare al frastornato Giuseppe il motivo della sua gravidanza, iniziando con l’angelo che, invece di pregare come ogni sera, la porta in volo “sopra le case” e le valli “dove all’ulivo si abbraccia la vite”.
Il sogno si evolve tra frammentate visioni dapprima dolci, poi più dure, cupe, fino alle parole dell’angelo “svanite in un sogno, ma impresse nel ventre”. Sembra di vedere il volto di Maria che piena di emozione ed innocenza, spiega il suo sogno, fino a sciogliersi, sfinita, in un pianto liberatorio, e quello di Giuseppe, che pieno di comprensione, l’accarezza delicatamente, perché “i vecchi quando accarezzano hanno il timore di far troppo forte”.
Tutta questa tensione si scioglie nell’enfasi di “Ave Maria”, in cui la protagonista porta orgogliosamente in giro la sua gravidanza, consapevole degli sbalzi d’umore, delle tempeste ormonali e della luce che le illumina il viso. Una mamma è una mamma, per sempre, a prescindere se il figlio che porta in grembo sarà “povero o ricco, umile o Messia”, e questa grande, gioiosa scena, conclude il lato A.
Il lato B si apre invece, dopo uno sbalzo temporale di circa 33 anni, con una estrema cupezza.
“Maria nella bottega del falegname” inizia con quei suoni onomatopeici, col “den den” di un martello ed il “fren fren” di una pialla, ed una madre, ora angosciata, che rivolge al falegname domande di cui in cuor suo sa già la risposta; va avanti con i giri di parole del falegname che lavora su quei ceppi ma vorrebbe nasconderle quella verità che poi è costretto a rivelare brutalmente: “il più grande che tu guardi abbraccerà tuo figlio”.
Qui de André riesce anche ad inserire un pensiero contro la guerra, ed in un crescendo di pathos, i gruppi di persone citati nel finale li ritroviamo, come in un grande affresco, o una sorta di polittico, nella successiva “Via della croce”.
Ci sono i padri dei neonati trucidati da Erode, che attendono da trent’anni “i rantoli d’un ciarlatano”; le vedove dolenti, che guardano “gli spasimi d’un redentore”; gli apostoli, che si guardano bene dal gridare addio al fratello che sanguina in croce, per non correre il rischio di essere scoperti; “il potere” che, una volta eliminato il “Re dei Giudei”, già guarda altrove, perché è già pronto “a spiar le intenzioni degli umili, degli straccioni” per tenere tutto sotto controllo.
Infine, i co-protagonisti, niente affatto compiaciuti di esserlo, che proprio perché “in fondo son solo due ladri”, sotto la croce non hanno che le madri a piangerli.
Con Maria, sono le “Tre madri” protagoniste del brano successivo. Le due non si capacitano della sofferenza di Maria, dato che il figlio risorgerà. Maria tuttavia con la propria delicatezza dà loro una risposta lapalissiana, considerato l’approccio “umano” dell’intero album: piange per ciò che perde, il contatto, la vita che lentamente gli vede sfuggire, l’umanità della sua vicinanza. Cose che comunque non ritroverà mai più, e che le fanno gridare: “non fossi stato figlio di Dio, t’avrei ancora per figlio mio”.
Questo strazio è interrotto solo dalle parole di verità, speranza e infine forse anche di redenzione pronunciate da uno dei ladri compagni di sventura di Gesù, che ne “Il testamento di Tito” (che l’autore considerava, insieme ad “Amico Fragile”, la propria migliore canzone), snocciola i dieci comandamenti, confutandoli, rivisitandoli, svergognando la stessa incoerenza di chi li impone ma non li osserva, denunciando l’inapplicabilità degli stessi nella vita di quei tempi per un poveraccio come lui.
Ma alla fine, lui, ladro, peccatore ed imperfetto, prova dolore nel veder morire quell’uomo (Uomo e non Dio), e nella sua pietà impara l’amore, mettendo in pratica quello riconosciuto come l’undicesimo comandamento.
La conclusione dell’album ribalta il brano iniziale in un “Laudate dominem” che raccoglie la morale dell’intero album: non più “Lodate il Signore”, ma “Lodate l’Uomo”.
Partendo dalle contraddizioni del potere (che dapprima uccide un uomo, assolvendosi nel nome di Dio, poi chiama Dio quell’uomo, ed in quel nuovo nome, ucciderà altri uomini), conclude con il bisogno (il “non voglio”, che diventa “non posso”, e infine “non devo pensarti figlio di Dio, ma figlio dell’uomo, fratello anche mio”) di considerarlo un uomo, perché un Dio non si può imitare, ma un uomo sì.
I sentimenti che pervadono l’opera, sono gli stessi dell’autore nel guardare alle scene ed ai protagonisti: amore, pietà e comprensione umana, e lo aiutano ad arricchire di elevate suggestioni poetiche gli scarni spunti tratti dai Vangeli apocrifi, senza dimenticare gli attacchi alla guerra ed al “potere”.
Un disco da ascoltare nella settimana di Pasqua.
Un disco da ascoltare sempre.
Rino Bonina