“Il nome della cuddura cu l’ova deriva dal greco kollura che vuol dire corona e in origine ne indicava la forma. Ha anche il nome di aceddu cu l’ova in quanto gli si da proprio la forma di una colombina. Ma diverse sono le forme in cui viene confezionato questo tradizionale biscotto: la campana (che insieme alla colombina simboleggia la resurrezione di Cristo) , il cestino ( che indica augurio di abbondanza) o il cuore, se il destinatario è il proprio innamorato.
La storia della cuddura cu l’ova
Anticamente la cuddura era prodotta dai pastori che la infilavano nel bastone e la portavano con sé ed era fatta di pane con uova sode, una delle poche cose che non mancavano mai. Era un pane da viaggio, sostanzioso e comodo da portare. Col tempo la ricetta è stata modificata ed arricchita di elementi fino a diventare il biscotto decorato con i confettini colorati che conosciamo oggi qui in Sicilia. Anche se questa regola ormai non è più sempre seguita, per tradizione il numero di uova posto sopra una cuddura deve essere dispari e tanto più è importante la persona cui si regala questo dolce, tante più uova si metteranno sopra.
Se mi chiedono di dove sono, a me piace dire che sono “ borbonica”. Di madre siciliana e padre napoletano, amo pensarmi come un concentrato del Regno delle due Sicilie. Nata a Taormina, ho trascorso sull’isola pochi mesi prima di prendere il largo verso il Vesuvio e, nel perimetro della sua ombra, ho vissuto gli anni della formazione con incursioni estive nel mare di Sicilia. Il richiamo dell’Isola, però, è sempre stato forte e all’età di 16 anni, insieme alla mia famiglia, sono passata dall’ombra del Vesuvio a quella dell’Etna. La mia famiglia segue l’energia dei vulcani, io ho cercato di assorbirla. Gli anni della mia infanzia sono, dunque, partenopei.
I miei primi ricordi, i primi giochi, i primi pasticci in cucina, i primi sogni e le prime fantasie hanno tutti il sapore del
pane di Frattamaggiore, della mozzarella di bufala, della pizza che più buona non ce n’è. Hanno la fragranza scrocchiarella delle sfogliatelle ricce, il colore delle tagliatelle all’uovo fatte a mano da nonna Tina e la dolcezza dei canditi che mordevo nelle fette di pastiera che mia madre ha imparato a fare benissimo! Gli anni dei sogni realizzati, della maturità, delle notti sui libri per preparare gli esami da dare all’Università, della prima trasmissione in radio, del primo concerto, della prima volta sul palco con un abito da sera, gli anni del sì più importante hanno il sapore degli arancini, delle paste di mandorla. Hanno il brivido fresco di una granita di gelsi, il sapore deciso delle sarde a
beccafico, il calore del pane appena sfornato da mia nonna Sara. Mia madre è stata bravissima ad imparare alla perfezione tutti i segreti delle ottime ricette napoletane, talvolta superando le maestre. Io ho iniziato a cucinare qui in Sicilia, ma col cuore rivolto al Vesuvio, combinando i sapori di una cucina borbonica fedele ai territori e alle tradizioni. Dividendomi tra due regioni e fondendomi in esse.
Con l’avvicinarsi della Santa Pasqua la mia mente corre subito ai pomeriggi infiniti passati nella cucina della mia nonna napoletana, con lei e mia madre che sfornavano teglie e teglie di pastiera da regalare ad amici e parenti. Io bambina gironzolavo intorno al tavolo in attesa di poter fare qualcosa per sentirmi utile e partecipare a quelle sessioni di cucina così produttive. Tagliavo con la rotella dentellata strisce di pasta frolla stortissime, che non avrebbero mai trovato impiego e mi sentivo felice, ma se frugo bene tra i cassetti della memoria, in mezzo a tutti questi pomeriggi, ne trovo uno che mi vede attenta aiutante della mia mamma che, facendo spazio nella sua vita a nuove tradizioni, non dimentica le proprie e mi regala una storia e una ricetta che da grande ho imparato ad apprezzare e ad amare sempre più. In una cucina napoletana dagli sportelli blu mia madre mi spiegò la ricetta delle “cuddure cu l’ova” e i miei occhi bambini rimasero incuriositi ed affascinati da questo dolce con le uova sode incastrate sopra!”