Quando, nel 1994, uscì “Doppio lungo addio” di Massimo Bubola, non mi parve vero! Per questioni anagrafiche, avevo perso i suoi dischi precedenti, che erano ormai praticamente introvabili, ma avevo parecchie delle sue collaborazioni, più o meni illustri ma sempre di altissimo spessore artistico. I primi 5 album pubblicati a partire dal 1976, erano un concreto esempio di come anche in Italia si potesse fare rock, e per giunta in italiano, e di come si potesse essere “cantautore” senza sussiego o pesantezza. Ballate rock, di accezione più ampia, che accarezzano il folk ed il country, ma anche il “tex-mex”, o i colori irlandesi. Il tutto contaminato dalle radici venete contadine e montanare, con un occhio ai ricordi dei racconti sulla I guerra mondiale che riaffioreranno in tempi più recenti. Ma la vera novità erano i testi, in cui la cultura popolare si mescolava al rock ed alla letteratura, con versi intrisi di metafore e surrealismo, al limite dell’ermetismo, ed il ricorso a quella che veniva definita “scrittura automatica”.
Tutti questi fattori, raggiungono la perfezione in questo album, in cui gli elementi più spigolosi e sperimentali si addolciscono in una scrittura più semplice ed essenziale, ma mai banale.Gli arrangiamenti e gli strumenti diventano perfettamente funzionali al racconto e più maturi, più aperti, con più equilibrio tra musica e testo. Nove brani, ognuno con un’anima diversa, ma omogenei. “Un sogno di più” mette in evidenza chitarre e mandolino, con il testo più enigmatico e ricco di simboli dell’album, con immagini che potrebbero essere indistintamente sogni, visioni o frammenti di fatti reali…
“Doppio lungo addio” riprende il tema del “doppio”, uno dei più trattati in letteratura, per raccontare un dolore antico, quello della morte del fratellino in giovane età; le chitarre sono sempre in evidenza.“Un uomo ridicolo”, con tanto di trombe mariachi a definirne il gusto tex-mex, che dietro questa allegria cela però un testo di condanna degli atteggiamenti cinici ed opportunistici di una certa tipologia di persone.In “Alì Zazà” tornano le chitarre e il mandolino, ma in un’atmosfera più cupa, da romanzo criminale, in cui per l’ennesima volta si palesa la sua capacità di creare e raccontare personaggi, in questo caso un “baby killer” che fa carriera ma trova una fine tragica lasciata però in dubbio dal finale.
“Niente passa invano” è una ballata struggente dall’ andamento musicale delizioso, il racconto di un dolore che però ci insegna che, comunque, nulla va buttato al vento.“Il cielo d’Irlanda”, qui in veste ancora più “irish”, è il riappropriarsi del suo già famoso brano…In “Dostoevskij”, Bubola riesce davvero a “curvare le parole” e la musica a suo piacimento, per un testo straordinario che contiene alcuni dei versi migliori dell’intero album.Infine, “Tutti assolti” è il brano forse più “politico”, una sorta di invettiva contro l’ennesima assoluzione, l’ennesimo “nulla di fatto” in un processo per strage, l’ennesima mancata verità.
Un disco straordinario, che segnò il ritorno di Massimo Bubola ad alti livelli, mantenuti spesso anche nei dischi successivi.
Rino Bonina