Chester Burnett aveva sentito che la gente se la passava meglio nella Wind City. Saltò in piena notte su un treno merci e dal profondo sud del Mississippi si spostò a nord. Cantando il blues. Al sud a quasi tutti viene affibbiato un soprannome. Chester, veniva chiamato “Bull Cow”, ma anche “Big Foot”, per via della sua stazza. Ma poi suo nonno John Jones, sentendo i racconti di un songster, un certo John “Funny Papa” Smith, per via del suo carattere intemperante lo chiamò Howlin’ Wolf. Il giovane lupo lavora nelle piantagioni di cotone ed è qui che incontra Charlie Patton e Willie Brown. Patton lo prende subito sotto la sua custodia insegnandogli i primi rudimenti alla chitarra, impressionato da quella voce selvaggia e roca che ricordava la sua. Howlin’ è un uomo alto quasi due metri e dal peso di un quintale ma questo non gli impedisce di dare libero sfogo a tutta la sua fisicità. Durante le esibizioni dal vivo, salta per il palcoscenico, si arrampica sugli amplificatori e si getta ululando sul pubblico. È il blues nel suo aspetto più carnale, è il diavolo che si impossessa del suo corpo e guaisce. Il blues è la storia di un popolo di migranti. Un popolo che riusciva a sentire, ascoltare e guardare in faccia le cose che accadevano ed a parlarne con la forza della musica. Persone ricettive, i bluesman, che tramite il viaggio, il continuo spostamento da un luogo ad un altro, aprivano gli occhi sul mondo.Howlin’ inizia ad incidere che è già abbastanza grande e questo giocherà a suo favore. Nel suo blues saprà convogliare la tradizione dei vecchi poeti del Delta, con quello che la strada gli ha spiegato. Durante gli anni venti e trenta Howlin’ Wolf coltivava la terra e si dedicava a suonare soltanto nei fine settimana. Alle feste del sabato sera, oppure nei jukes o nelle bettole clandestine, sempre e comunque in compagnia di Charlie Patton. Per un po’ di tempo si fece anche trascinare in giro da gente come Rice Miller, Robert Johnson, Robert Lockwood Jr. e Baby Boy Warren. Ma il lupo non amava la vita sgretolata fatta di whiskey, donne, e spesso fuori legge. Perciò si ritira nella fattoria del padre per scomparire dalla scena attiva del blues. Questo almeno fino alla seconda guerra mondiale. Wolf a Chicago arrivò nel 1952, insieme alla sua chitarra e l’armonica a bocca che Sonny Boy Williamson, nel frattempo diventato suo cognato, gli aveva insegnato a suonare. Quel contadino portava con sé il suo caratteraccio smanioso e diffidente sempre pronto alla rissa, tanto che i suoi rapporti con gli altri bluesman furono problematici, specie con Muddy Waters, suo eterno rivale. Scritturato da Leonard Chess, per l’omonima casa discografica, condivise con Waters, le canzoni che il prolifico e immenso Willie Dixon gli scrisse. Spoonful, Little Red Rooster, Evil, Back Door Man, I Ain’t Superstitious, sono alcune di quelle perle. Quando nel 1955 il chitarrista della sua band Willie Johnson viene sostituito da Hubert Sumlin troverà in lui uno dei pochi musicisti in grado di assecondarlo, tanto che lo considerò sempre come un figlio. Il blues del “lupo ululante” era oscuro e martellante, aggressivo e privo di compromessi. Wolf era un figlio del Mississippi, radicato nelle tradizioni e cresciuto con la lezione del grande Charley Patton. Anche quando alla fine della sua carriera il successo gli arrise, non si scordò mai dei suoi dolori, dei suoi disagi, delle sue origini. Non scordò mai chi era stato.

Bartolo Federico