Ok, probabilmente non è il miglior album di Bob Dylan (ma come si fa, poi, a sceglierne uno? Solo uno?!?), e quando uscì divise pubblico e critica nel giudizio; eppure è un disco importante nella sua discografia, senza un solo brano “sbagliato” o fuori posto, e con alcuni pezzi basilari nella sua intera produzione.

EXCLUSIVE; SPECIAL RATES APPLY. Bob Dylan in his Greenwich Village apartment just a few months before he would release his self-titled debut album. (Ted Russell/Polaris) /// Bob Dylan

Per capirlo bene, occorre inquadrarlo nel tempo e nella storia.

Si era appena conclusa la “Rolling Thunder Revue”, il tour più iconico della storia, portato avanti da ottobre 1975 a maggio 1976, un enorme successo artistico ma non commerciale, anche per la scelta di esibirsi in locali spesso di modesta capienza.

Nel frattempo, si era acuita la crisi con Sara, sposata nel 1965, e nei solchi dell’album “Blood on the tracks” (1975) scorreva davvero il sangue di questa crisi, che dopo un tentativo di riavvicinamento testimoniato anche dal brano “Sara” contenuto nell’album “Desire” (1976), sfociava nel divorzio a giugno del 1977.

Un altro evento che turbò molto Dylan fu, nell’agosto del 1977, la morte di Elvis Presley, considerato da sempre un modello da seguire; forse fu per questo, per mantenerne vivo il ricordo e raccoglierne in qualche modo lo scettro, che chiamò per le registrazioni il bassista che suonò live con Elvis fino alla fine.

Così, in pochissimi giorni tra fine aprile e inizio maggio 1978, l’album venne registrato, e nel giro di un paio di settimane arrivò già sugli scaffali dei negozi.

Musicalmente, l’album si caratterizza per l’utilizzo del sax, che conferisce un colore particolare a molti pezzi (anche se gli valse l’accusa di imitare Springsteen…), per le chitarre ritmiche elettriche, per il mancato utilizzo, da parte di Dylan, dell’armonica, per la prima volta in un suo album, e, last but not least, per la presenza del trio gospel composto da tre coriste, che per molti lo accomuna ai tre album successivi (quelli cosiddetti della trilogia religiosa), anche per il particolare del titolo che in inizia, come quelli, per “s” e per il simbolismo, il misticismo e la spiritualità che lo pervadono.

Canzoni potenti ed evocative, come “Changing of the guards”, “New pony”, con il trio gospel quasi ossessivo, o “No time to think”.

Altre più leggere, ma non meno valide, come “Baby, stop crying”, che non per niente venne scelta come singolo, “True love tends to forget” o “We better talk this over”.

“Where are you tonight?” è la conclusione grandiosa, che pare anticipare di molti anni i temi ed i motivi per i quali, molto tempo dopo, gli verrà assegnato il Nobel.

E poi due brani sui quali ritengo utile soffermarsi perché, per motivi diversi, meritano attenzione.

“Is your love in vain?”, in apertura del lato B, impreziosita da uno splendido organo, è una canzone d’amore “ribaltata”, in cui Dylan pone alla donna una serie di domande, e, elencando una serie di aspetti difficili del proprio carattere (non c’è certezza tuttavia che egli li consideri difetti…), pone quasi alcune condizioni, accettando di darle una possibilità solo se è in grado di assecondare e rispettare il suo bisogno di stare in solitudine o i suoi momenti bui.

Per questa canzone venne anche accusato di maschilismo, per il passaggio in cui chiede “sai cucire, cucinare, coltivare i fiori?”, ma in realtà questi stereotipi del tipico puritanesimo americano gli servono solo a rimarcare che a lui interessa prevalentemente la domanda successiva, ovvero “capisci il mio dolore?”.

L’altro brano è “Señor”, che rimane uno dei più misteriosi della sua produzione e si presta a innumerevoli interpretazioni; chi è l’interlocutore a cui vengono rivolte le domande? Dio? La morte? O cos’altro?

Di certo, si sa solo il racconto dello stesso autore, di come il brano fosse stato ispirato dall’incontro, durante un viaggio in treno in Messico, con un essere sovrannaturale, di almeno 150 anni, con occhi di fuoco e fumo dalle narici; a generare maggiore confusione, il sottotitolo “Tales of Yankee power”.

Domande e visioni si intrecciano in un canto che sembra di ricerca, ricordo e redenzione, per un testo splendido, compresa quella frase, “I’m ready when you are, Señor”, scandita in un tono che contiene sfida, rassegnazione e resistenza.

Un grande album un po’ sottovalutato, almeno all’inizio, ma molti detrattori, col tempo, si sono ricreduti, anche grazie a ristampe rimasterizzate e rimixate che hanno migliorato il suono un po’ confuso e penalizzante delle prime uscite.

Rino Bonina