L’intervista di Rino Bonina

Nata a Cagliari nel 1989 come band di alternative rock, fu attiva, con buoni successi e riconoscimenti negli ambienti della new wave e nel panorama dei gruppi indipendenti, e con vari cambi di formazione, sostanzialmente fino al 1998. 

Intorno al 2008 poi, il fondatore Davide Catinari decise di rilanciare il progetto con nuovi musicisti ed una virata verso un taglio più cantautorale, con inoltre un approccio che dà importanza sia alla musica sia alle immagini, tanto che, dal 2013, il gruppo ha dato anche vita al progetto Sound and Vision, che consta di esibizioni per musica ed immagini e coinvolge anche alcune tra le firme italiane più prestigiose del fumetto e della graphic novel.  

L’ultimo lavoro, “Moonage Mantra”, risale al 2017, col fiore all’occhiello della collaborazione con Blaine L. Reininger, cofondatore dei Tuxedomoon (proseguita anche nei concerti/happening del progetto Sound and Vision), e si presenta come un incontro molto interessante tra approccio cantautorale, rock alternativo ed elettronica, almeno nella prima parte cantata in italiano; nella seconda, cantata in inglese, diventa ancor più sperimentale e psichedelico.

L’attuale line up, oltre a Davide Catinari, comprende Samuele Dessì (che partecipa anche al nuovo progetto, Periferie dell’Infinito, insieme al disegnatore/pittore Gildo Atzori), Nico Meloni, Andrea Viti e Mario Marino. 


Oggi abbiamo l’opportunità di fare qualche domanda a Davide Catinari, per farci raccontare di più di questa esperienza. 

  • Cosa hai portato, nel nuovo corso della band, dalla prima esperienza conclusa nel 1998? 

Le due vite di questo progetto, sospeso in un arco temporale incastrato tra epoche diverse, sono state caratterizzate da un comune denominatore, oltre che dalla mia presenza. Credo che l’onestà artistica, cioè la capacità di mettersi in gioco, sia il più grande valore aggiunto di chi intenda fare musica, o arte in genere. Questa è la sintesi di ciò che significa essere sé stessi, riuscire a prescindere da modelli ciclicamente riproposti sostanzialmente per attirare il consenso o promuovere l’imitazione degli stessi, attraverso l’elaborazione di forme sempre più importanti dei contenuti. Personalmente continuo a preferire l’approccio espressivo più che quello tecnico perché in fondo si tratta sempre di emozioni, e credo che il mio principale contributo al progetto, in termini di scrittura, sia stato quello di dargli un’identità, cercando l’originalità anche negli errori.

  • Quali erano gli artisti e le band con le quali, in quegli anni, sentivate maggiori affinità? 

Il nostro primo album uscì verso la fine del 1992, un periodo storico in cui lo scenario musicale, leggi critica e pubblico, era quasi totalmente assorbito dall’esplosione mondiale del Seattle Sound. Considerato che il nostro background e anche il nostro suono denunciavano radici europee, puoi facilmente comprendere come le affinità artistiche con la maggior parte della band dell’epoca, almeno in Italia, non fossero proprio numerose. 

  • L’album ha più chiavi di lettura, compreso un cambio abbastanza netto tra prima e seconda parte, tanto da assumere una nuova identità denominata Golem In Love. E’ un approccio strumentale alla necessità di raccontare i temi di questo album, o pensi di utilizzare lo stesso schema in futuro? 

La dicotomia che rende Moonage Mantra un album tecnicamente bipolare nasce dall’esigenza di chiamarsi fuori dalle cosiddette certezze, di misurarsi con una sensibilità diversa da quella che emerge negli ultimi dischi dei Dorian Gray, di creare un sound svincolato da ciò che avevamo fatto in precedenza, a costo di sembrare schizofrenici. La necessità di non ripetersi e di lavorare su materiale destinato a essere compreso da un pubblico internazionale ha fatto il resto, anche perché dal 2008 in poi abbiamo suonato all’estero con maggiore frequenza e desideravamo proporre un set differente, con materiale più acido e psichedelico rispetto a quello esclusivamente pensato, scritto e realizzato in italiano. Golem in Love è il vero alter ego di Dorian Gray, non un riflesso nascosto in uno specchio.

  • L’album, ma in generale la vostra più recente produzione, ha anche più livelli di fruizione, considerando ad esempio l’importanza dell’apporto delle immagini, sia nel packaging di cd e vinili, sia nelle esibizioni live. Ce ne vuoi parlare? 

Il rapporto con le immagini è una costante della mia scrittura e molte canzoni dei Dorian Gray sono fotografie emozionali di stati d’animo che possono essere ben rappresentati in un contesto di narrazione visiva, declinata come elemento strutturale e non complementare dell’azione scenica. 

Dal 2013 il nostro live include costantemente la presenza di un disegnatore – diverso per ogni data – che fa parte a tutti gli effetti della band, così da mantenere l’irripetibilità della performance, visto che la scaletta muta continuamente in funzione dello spazio e della sensibilità dell’autore e per offrire al pubblico l’esperienza diretta dell’atto unico. Ciò che voglio dire che questo è il nostro modo di uscire dalla “gabbia” dell’evento seriale da replicare con le stesse modalità a Trento come a Canicattì. Se cambia tutto, deve cambiare anche il concetto stesso di live, quindi meglio cercare sempre di mettersi in gioco e non badare troppo al mestiere. L’esigenza di fare dischi da vedere oltre che da ascoltare è figlia di questa necessità espressiva e del fatto che il nostro contemporaneo si nutra di segni quanto di suoni.

  • Dall’ascolto di “Quasar”, e dalla visione del corto “La luna negli occhi”, si apprezza l’apporto di Blaine L. Reininger sia in termini strumentali che vocali, nonché un suo grande coinvolgimento e divertimento. C’è da aspettarsi nuovi sviluppi? 

Personalmente il rapporto con Blaine è stato inizialmente viziato dalla deferenza del fan, perché amo le cose che ha scritto e “Desire” è uno degli album che mi ha cambiato la vita. Per questo motivo sono onorato di potermi rapportare con lui, sotto il profilo artistico e umano. Scrissi “Quasar” sperando in un suo coinvolgimento ma non avrei mai scommesso sul fatto di poter stare sullo stesso palco, suonando anche materiale dei Tuxedomoon. Il nostro rapporto è cresciuto nel tempo grazie alla reciprocità del calore con cui si è sviluppato e credo che continuerà in futuro. Avremmo dovuto fare una data insieme al Book Pride di Milano in primavera, ma puoi facilmente immaginarti come sia andata a finire… 

  • All’album hanno collaborato anche diversi altri artisti del vasto panorama rock alternativo italiano; il loro apporto è stato di partecipazione al processo creativo o di mera interpretazione?  

Con Sebastiano De Gennaro avevo già lavorato all’interno del progetto DVega, esperimento concepito insieme a Giovanni Ferrario (Scisma, Micevice, P.j. Harvey) e Andrea Viti (ex Karma, Afterhours e attuale bassista dei DG), restando immediatamente colpito dalla sua abilità nel calarsi in atmosfere estranee alla rigidità della band tout court e dalla capacità di contribuire in maniera organica alla definizione del suono dei brani. Nel caso di Luca Masseroni esiste una contiguità di confine, visto che la Sardegna e il Friuli sono agli antipodi geografici dell’Italia e mantengono caratteristiche antropologiche affini, oltre a una naturale empatia che è sfociata nella sua partecipazione a Moonage Mantra, probabilmente la prima scappatella discografica al di fuori dei Tre Allegri Ragazzi Morti.    

  • Per concludere, come stai sfruttando creativamente questo momento di stop forzato? Ci sono nuovi progetti a cui stai lavorando? 

Ho scritto dei pezzi sulla musica e sul costume che sono usciti su Linus (testata storica del fumetto nazionale), ma il lavoro principale oggi è un progetto chiamato “Periferie dell’Infinito”, una sorta di reading dal sapore teatrale, ispirato dalle vite di artisti dall’esistenza estrema, in cui racconti originali si mescolano a visioni oniriche e suoni lisergici. Detta così può sembrare un’operazione un tantino eccessiva, ma in verità si tratta di un happening tra ironia, cinismo, varie declinazioni dell’amore e della fragilità umana, che trasferisce il tutto sul palco col taglio del racconto gotico, sostenuto da cambi di scena dove le immagini e le musiche assumono una dimensione narrativa che evita la secca didascalica della descrizione fine a sé stessa. L’abbiamo già replicato una decina di volte, anche in situazioni particolari come l’ex ospedale psichiatrico di S. Salvi a Firenze, sempre con una buona risposta di pubblico. Trattandosi di una nuova sfida nel campo dell’ibridazione di diversi linguaggi – parola, suono e segno – credo che ci possano essere nuovi sviluppi di questo progetto anche sul web, ma per ora preferisco concentrarmi sul presente tra nuove canzoni e nuovi racconti, in attesa che questa distanza sociale cessi di essere una condizione che può congelare il futuro, e non solo quello dei Dorian Gray.