Nato ad Austin nel 1948, Calvin Russell, pur facendo musica dall’età di 13 anni, fino al 1990 aveva al suo attivo solo un paio di singoli e qualche collaborazione (oltre a qualche sporadico soggiorno in cella), nonché alcuni infruttuosi tentativi di farsi notare dalla discografia locale, dimostratasi alquanto disattenta.

Ma è grazie alla lungimiranza del proprietario della label francese “New Rose Record”, Patrick Mathé, cui consegna un demo originariamente destinato a Charlie Sexton, che vede la luce “A crack in time”, il suo esordio datato 1990. Un disco ancora acerbo e grezzo, ma che delinea le potenzialità di questo oscuro songwriter, e gli permette di farsi conoscere fuori dai confini dello Stato della stella solitaria.

Ma è nel 1991 che Russell piazza un colpo notevole, un passo avanti rispetto all’esordio, perché “Sounds from the fourth world” si presenta con un suono più curato rispetto al precedente, più completo, denotando equilibrio e maturità.

La sua musica è scarna e spigolosa come i tratti del suo viso scolpito dalla vita; sofferta e nervosa come la sua anima sempre alla ricerca di qualcosa; ruvida e sincera come la sua voce segnata da fatiche, delusioni e reclusione. Le tracce di questo disco sono intrise del sudore, del sangue, delle lacrime di un solitario, e lasciano emergere le sue sofferenze, i suoi dubbi, i suoi demoni, i suoi eccessi, veri e non artefatti, perché realmente vissuti. Per questo risulta credibile, sia nelle sue composizioni, sia nelle cover, perché lui quello che canta lo ha vissuto davvero.

Nel disco Calvin Russell canta e suona la chitarra, ed è aiutato da una band solida, con i fratelli Waddell, Leland alla batteria e David al basso, Gary Craft alla chitarra e Tomas Ramirez che col suo sax aggiunge colori e sfumature in diversi brani.

Chitarre sempre in evidenza, dure e secche come un drappello di cani bastardi, che fanno vibrare l’anima sia quando esplodono in poderose cavalcate elettriche dagli accenti southern rock come “You are my baby” o “Maybe someday”, sia quando si stendono tese e vibranti in ballate come “Baby i love you” o la più intimista “Down down down”.

I contrasti della sua anima sono resi ancora più evidenti dalla presenza di due versioni di “One meat ball”, brano di Josh White del 1944, che narra la triste storia di un vagabondo che con in tasca un solo dollaro, può permettersi solo una polpetta per pranzo e per questo motivo viene deriso e sottoposto a pubblico ludibrio dal cameriere e dagli avventori del ristorante. La prima versione è un classico blues, elettrico e ruvido, con chitarre puntuali e funzionali alla storia sia negli appunti che negli assoli, mentre la seconda (presente solo sulla versione in CD) rende le stesse emozioni con solo chitarra acustica e sax, ed appare ancora più straziante e disperata.

“Crossroad” è la punta di diamante dell’album, e pur non essendo scritta da Russell, ma da Saylor White, appare assolutamente personale, e in fin dei conti potrebbe anche trattarsi dello stesso incrocio in cui Robert Johnson incontrò il diavolo…

“Sono in piedi ad un incrocio, ci sono molte strade da prendere, ma io sto qui in silenzio per paura di un errore… una strada porta al paradiso, una al dolore… una al sacrificio, una alla vergogna, una alla libertà… ma sembrano tutte uguali!”.

Chitarre acustiche che si rincorrono ed una ritmica appena accennata, voce decisa e ruvida per un brano che trasuda verità ed emozioni.

Completano il set la lunga “You don’t know”, altra cavalcata elettrica impreziosita da sax e coro femminile, due brani dell’amico Rich Minus (musicista nel dopolavoro, ma di professione tassista ad Austin): “Last night” dura ballata elettrica accompagnata dal sax, e la tirata e polverosa “Rockin’ the Republicans” che inizia acustica e finisce in un’esplosione di elettricità., e la notturna “Love stealer” di Jubal Clark.

“Sounds from the fourth world” rappresenta il disco che gli ha fatto guadagnare un discreto seguito, e gli ha garantito parecchie serate live, sia in Europa che in patria. Seguirà nel 1992 l’altrettanto riuscito “Soldier”, e successivamente un’altra decina di album sempre di ottima qualità, fino alla sua prematura scomparsa avvenuta nel 2011, a soli 62 anni.

Un outsider Calvin Russell, uno di quelli che sapeva parlarti al cuore, e di cui rimane il ricordo di un uomo che non si è mai arreso, inseguendo i suoi sogni lungo le strade sterrate di quell’America dimenticata nella polvere del deserto. Un musicista onesto che ti sapeva graffiare con le sue storie sporche e unte di vita. Un angelo di desolazione, che volava in un mondo ostile, con due occhi magnetici incastonati in un viso spigoloso sotto l’inseparabile cappello.

Rino Bonina