Ovvero di come il 19 giugno si ricorderà nella storia della musica.
Non nascondo che, appena ho appreso della contemporanea uscita di questi due lavori il 19 giugno, ho immaginato i due “ragazzi” seduti ad un tavolino (o, considerato il lockdown, semplicemente al telefono), a mettersi d’accordo per farli uscire lo stesso giorno, ridendosela sotto i baffi alle nostre spalle…
A parte questa impossibile suggestione (anche se conoscendo i soggetti, non si può mai escludere o stupirsi di nulla), tolta la medesima data di lancio, i due album hanno ben poco in comune, partendo da presupposti, situazioni, condizioni, concezioni e tempi diversi.
Bob Dylan nel bel mezzo dell’emergenza mondiale, il 27 marzo, con un messaggio di gratitudine e incoraggiamento ai fan, ha pubblicato un inedito, “Murder most foul”, il brano più lungo della sua carriera, che prendendo spunto dall’assassinio di JFK, passa in rassegna una bella fetta di storia e di musica americana. Come se ciò non fosse già sufficiente a scatenare interrogativi e innumerevoli sforzi esegetici, esattamente tre settimane dopo ha “partorito” un altro inedito, “I contain moltitudes”, svelando l’arcano solo dopo altre tre settimane esatte, con la pubblicazione di “False Prophet” e l’annuncio dell’uscita, per il 19 giugno, di “Rough and rowdy ways”.
Una vera e propria sorpresa per tutti (dal momento che l’ultimo album di inediti risaliva al 2012 e nessuna notizia era trapelata in precedenza, e considerato che da allora in poi Bob si era intrippato con i dischi su Frank Sinatra e sulle “classic american songs”), con la quale Dylan dimostra ancora una volta che non è possibile fare previsioni sulla sua musica e sulla sua carriera, e che risultano quantomeno frettolose (se non addirittura malauguranti) le conclusioni di chi considera questo lavoro una sorta di album definitivo, di canto del cigno, di congedo. Non è detto nemmeno che non lo sia, solo che io ci andrei molto cauto…
Totalmente diversa invece la storia del disco di Neil Young, che a proposito di lockdown dava il suo contributo alla lotta alla noia ed al sollevamento del morale pubblicando gratuitamente, sui suoi “NY Archives”, mini concerti tenuti davanti al suo camino, o in mezzo alla neve, o al cospetto di un distratto gruppo di galline.
“Homegrown”, infatti, era stato registrato nel 1975, ma,in parte anche a causa della fine della sua relazione con Carrie Snodgress e del conseguente taglio eccessivamente personale e sofferente dei brani, al suo posto venne pubblicato “Tonight’s the night”. La sorpresa in questo caso risiede solo nei più volte disattesi annunci di pubblicazione del disco, mentre stavolta, invece, si fa sul serio, complice probabilmente il tempo trascorso che lenisce ogni ferita, ed il lavoro intrapreso con la divulgazione degli immensi ed in parte ancora inesplorati archivi.
Alcuni i brani avevano già visto la luce in altri album, raccolte o bootleg, ma l’uscita del disco così come era stato concepito 45 anni fa restituisce uno spaccato dell’epoca, una parte di storia perduta funzionale alla ricostruzione di un’altra straordinaria ed infinita carriera. Ed il disco, incredibilmente (ma come molte delle pubblicazioni tratte dai suoi archivi), suona fresco ed attuale.
Per quanto siano diverse, chissà se un giorno, fra 50 o 100 anni, si studieranno le vite e le carriere di questi due Artisti, magari, approfittando di questa contemporanea uscita, analizzando tratti comuni e divergenze, proprio come ad esempio al Liceo si studiavano quelli tra Guicciardini e Macchiavelli…
Di sicuro, senza di loro, saremmo stati (e non solo durante il lockdown) molto più soli.
Rino Bonina