Senza gli stereotipi e la ruffianeria spesso abusati da chi non ha altri argomenti, Ezio Noto con il progetto “Disìu” ci regala un album stupendo, ricco di tradizione ma anche di innovazione, facendole stare insieme senza farle mai litigare, con 12 tracce che avvolgono, stuzzicano, fanno venire voglia di ballare o commuovono come l’ultima, “Calogero Marrone”, una splendida ballata pianistica dedicata a questo siciliano che lavorava a Varese e venne deportato a Dachau nel 1944 per aver aiutato numerosi ebrei a sfuggire alle persecuzioni.
L’album colpisce sia per il buon lavoro a livello cantautorale, sia per le musiche ed i suoni puliti, che ben evidenziano i contrasti sopra descritti senza mai trasformarli in confusione.
E tutto ciò è chiaro fin dall’inizio, con la breve intro “Le parole del tempo perduto” che mette insieme musica etno e vocalizzi che richiamano quelli di pastori o contadini, con una batteria che tesse trame rock, a rendere già chiara l’idea di una versione 2.0 della musicalità siciliana.
Ma c’è anche la tarantella di “Ninnella”, che rende onore ad un giovane abruzzese deceduto nella tragedia di Marcinelle nel 1956, attraverso questo ballo frenetico ma oscuro, che riguarda argomenti quali emigrazione, morti sul lavoro ed amore, usando una lingua che mescola i dialetti degli autori (il testo è di Mario Ciola, lucano), in una sorta di fratellanza che accomuna tutte le vittime di quel disastro.
Tutti i testi sono in dialetto, anche quello di “Radio Aut”, dedicata a Peppino Impastato, nella quale rispunta il rock quale linguaggio di espressione, ribadito in “Puppiti nterra”, una sorta di ninna nanna contro tutte le guerre, nella quale dopo una prima parte con un arpeggio di chitarra limpido ed archi, ritorna una bella batteria rock a rafforzare il messaggio.
Tutti i testi e le musiche sono di Ezio Noto, a parte quello già citato ed altri due brani peraltro degni di nota quali “Sciroccu di l’arma”, con testo di Piero Carbone, e “Lingua lippusa”, testo di Giuseppe Giovanni Battaglia e musica di Ezio Noto e Francesco Giunta.
Ma sono tutte e dodici le tracce ad essere interessanti, compresa la filastrocca quasi parlata “Li pisci di Cosimu”, dedicata al pittore di Sciacca Cosimo Barna, ed il breve strumentale “Hjàtu”.
Ed in tutte e dodici è palese la commistione di generi e stili assorbiti nella sicilianità, come evidente in “Lu paradiso è cca’” e nel blues di “San Piddirinu blues” con una chitarra dobro in bella evidenza.
Ed infine, una menzione particolare per le due tracce che chiudono l’album, ovvero “Rosa”, dedicata a Rosa Balistreri, e la già citata “Calogero Marrone”, a mio parere la vetta più elevata del disco per intensità ed emozione.
In questo ottimo lavoro ci sono i suoni, le melodie, gli strumenti tipici della nostra Sicilia, ma con essi convivono, senza mai prevalere e senza esserne sopraffatti, altri elementi, stili, suoni, strumenti che si integrano perfettamente, come simbolo di integrazione e tolleranza è questa terra, ed elevano la narrazione non a mera riproposizione di modelli convenzionali, ma a standard elevati di elaborazione ed innovazione.
E quello che ne viene fuori è, come in molti buoni vini siciliani, un blend armonioso ed avvolgente, anche se i vitigni (fuor di metafora, gli elementi musicali) non sono tutti autoctoni, ma a questi si sposano perfettamente.
Rino Bonina