Il cantautore Michele Scerra ha intervistato per Suoni Indelebili Paolo Pietrangeli:

Amore, amore, amore un c….” , cosi si chiama l’ultimo disco di Paolo Pietrangeli, uscito lo scorso ottobre in vinile per Bravo Records e contenente 3 inediti.

Un lavoro sull’amore inteso “come un graffio, una ferita, non c’è niente di consolatorio nell’amore” queste le sue parole all’inizio della nostra chiacchierata, da qui il titolo.

Paolo Pietrangeli è un uomo che crede “ancora” alle parole, all’importanza del racconto, tant’è vero che si definisce lui stesso un “raccontatore” non un cantautore. A me è bastato alzare il telefono, digitare il suo numero di casa “che al cellulare sto scomodo” mi dice, e stare ad ascoltare.

Questo disco contiene anche discorsi, racconti, testi parlati che sono un valore aggiunto per la comprensione dei pezzi e di una intera carriera di cantautore, regista e tanto altro. Quanto sono importanti, funzionali ai pezzi?

Lei prima all’inizio della nostra chiacchierata, mi ha chiamato cantautore, per quanto scriva delle canzoni, non mi ritengo tale. Mi ritengo una persona che racconta. Che ha nel racconto la sua ragione di vita, quindi il racconto è fatto in tanti modi diversi. E’ fatto con la musica, con le parole, con le parole accoppiate alla musica, con le parole senza musica, con le parole scritte, con le immagini. Tutti questi percorsi li ho sperimentati. Quindi, non sono un cantautore, sono un raccontatore.

Io non ho mai pensato a questo mio scrivere, parole in musica, come un fatto lavorativo, non c’è niente di male.

I miei colleghi, come lei giustamente ha detto cantautori, hanno cercato di risolvere più di un problema: quello dell’ispirazione, della vena artistica, ma non secondariamente anche la loro sopravvivenza. Io non ho mai pensato che quello potesse essere il mio lavoro: un conto è uno che lavora e un conto è la passione. Il fatto di scrivere canzoni, per me, attiene a questa seconda categoria quella delle passioni.

La necessità di raccontare è quella che viene prima di tutto?

L’urgenza del racconto, si.

L’album è pubblicato fisicamente solo in vinile, ma tra piattaforme digitali e QR Code è aperto ai nuovi metodi di fruizione della musica. Tu sei un nostalgico del vinile oppure oggi utilizzi anche questi strumenti?

Ho cominciato col vinile e considerando che io non ho idea, ma insomma non credo che ce ne saranno tanti di dischi da qui alla fine, ho pensato di poter chiudere con il vinile.

Sentivo la nostalgia di queste copertine grandi, dove il lavoro del grafico fosse esaltato e non compresso, non negletto e non schernito da questi piccoli e “insulsi” c.d., tantomeno da questi “files”(pronunciato volutamente con un tono grottesco) che non hanno nessuna sostanza. Come quando uscirono le carte di credito, io fingevo di non capire che fossero sostitutive del denaro, per cui spendevo un sacco di soldi senza avere l’impressione di spenderli. E cosi adesso con questi “files” che non riesco a toccare, ad annusare, a vedere. Secondo me quella è musica di un altro tipo, musica di un’altra generazione, musica di un altro pianeta.

E’stato molto chiaro.

Menomale (sorride)

Lei appartiene a quella generazione dove la “musica impegnata” aveva un valore sociale, oltre che una contingenza storica importante. Oggi è difficile forse scrivere delle canzoni-simbolo, penso alla sua “Contessa” che raccontava di una necessità storico-politico-sociale.

Secondo lei questo tipo di “filone” artistico, per quanto la musica “impegnata”, non dovrebbe mai cedere il passo, può avere ancora un significato centrale come lo aveva un tempo, oppure vivendo in una società post-politica siamo costretti a rassegnarci?

Tutte e due le cose. Siamo in una società post-politica, la canzone politicamente importante ha ragione di esistere se uno ha attenzione al racconto, ma adesso la sensibilità di chi ascolta musica, soprattutto dei ragazzi, è molto sul “brevissimo”, sulla “scheggia”, sull’impressione, sull’arrangiamento, sulla sonorità, su un’intonazione, piuttosto che su un racconto complessivo. Allora certo è, che per fare canzoni che possano in qualche modo coinvolgere persone in una realtà sociale che li comprende o li trascende, è importante che uno abbia la voglia di sentire che cosa racconta. Però non è detto, io non amo molto il “rap” ad esempio, ma penso che ci siano molti esempi di tentativo di coniugare il loro modo di esprimersi col sociale.

Il problema sa qual è? Mentre fino a un certo punto della nostra vita i movimenti erano movimenti di massa e quindi i racconti erano racconti di massa, erano racconti collettivi, adesso i movimenti sono di: “condominio”, di “sottoscala”, di centro sociale, cioè di realtà o autoreferenziali o ancora, spero per poco, molto circoscritte. E’ chiaro quindi che a quel punto non puoi fare un quadro di insieme, non puoi scrivere oggi “Contessa”, scrivi l’esaltazione di un momento di questi istanti che sono minuscoli, microscopici, è un po’ come se la pittura naturalistica quella di grande respiro, sia sostituita con la pittura “moderna” del particolare: di uno sfregio sulla tela che può rappresentare tutto e niente.

Abbiamo un po’ perso la magniloquenza della poesia?

La magniloquenza sicuramente si.

Michele Scerra

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