I Lautari sono un vero e proprio patrimonio, se non dell’Umanità (ma dovrebbero esserlo), quantomeno della sicilianità.
Attivi da oltre 35 anni (io li conosco più o meno dal 1990, quando ad un loro concerto acquistai la musicassetta di “Acqua e sali”), apprezzatissimi anche all’estero, da una vita coerenti al loro modo di essere e di fare musica, evidenziato anche nella nota a margine del disco: “N.B.: In questo disco non sono stati usati strumenti finti o di natura elettronica. Tutti gli strumenti sono stati maltrattati tanto da farli suonare a dovere”.
Il loro progetto nasce come ricerca e rielaborazione di brani della tradizione popolare, cui fin da subito affiancano proprie composizioni inedite che ne riprendono comunque i canoni, tanto che spesso è difficile distinguere gli uni dagli altri. Tutti ottimi musicisti, polistrumentisti, vantano collaborazioni con Carmen Consoli, Goran Bregovic ed in teatro con Gabriele Lavia, Franco Zeffirelli, Giorgio Albertazzi e Peppe Barra, e partecipazioni a prestigiosi festival, rassegne musicali e progetti, in Italia come all’estero. Suonano ogni sorta di strumento, dai classici a quelli della tradizione siciliana fino a quelli etnici in generale, provenienti da ogni parte del mondo. E questo album è un po’ l’emblema del loro modo di essere, almeno nel titolo del disco e del primo brano, che è un vero e proprio manifesto d’orgoglio nell’essere sempre indietro, nell’inseguire tutto, nel prendersi il tempo necessario per fare ogni cosa. E se questo modo di agire comporta che in 35 anni di attività questo sia solo l’ottavo album, e che siano passati nove anni dal loro ultimo lavoro, ben venga, se poi i risultati sono questi (c’è da dire però che, in compenso, sono sempre stati molto attivi sul fronte live). Gli undici brani di questo album sono stati scritti, quanto ai testi, prevalentemente da Gionni Allegra e Puccio Castrogiovanni, e quanto alle musiche dall’intera band o dai singoli componenti, tranne “Peddi nova”, testo e musica di Cesare Basile, e “Volare”, con il testo di Nino Bellia. “Fora tempu”, come detto, è un inno a questo modo di essere che per il gruppo rappresenta una virtù, ma che nella nostra società sempre più convulsa è visto come un difetto. Fra l’altro, è stato pubblicato un video molto bello, girato “con la partecipazione straordinaria di Peppenino e il suo mastro puparo Marco Napoli”. La “Trazzera dei briganti” è la strada, o la zona, più malfamata di ogni città o luogo, e potrebbe descriverne indifferentemente una in Sicilia, Africa, Medio Oriente, o dovunque nel mondo. Posti pericolosi da frequentare, ma veri. La musica di “Cori coruzzu” è un “chorinho”, ovvero una danza tradizionale brasiliana, cui viene aggiunto un testo in siciliano che parla d’amore e nulla ha da invidiare ai più famosi testi d’amore tradizionali. Ogni mondo è paese, e “Paisi di tri soddi” rappresenta qualunque paesino in cui troviamo le stesse storie, d’amore, di corna, di mani sporche, di nobiltà e miserie… paese (o Paese in senso di nazione?) da tre soldi, perché così poco vale la sua misera gente. “Su li stiddi” è una canzone d’amore, di stile popolare, di celebrazione della donna e delle sue bellezze, tali da oscurare sole, stelle e luna, che emanano luce solo in alcune parti della giornata, mentre l’amata riluce con la sua bellezza giorno e notte. “Peddi nova” è scritta e cantata da Cesare Basile, altra eccellenza sicula, parla di cambiamento e della capacità (ovvero desiderio, necessità) di rinnovarsi scrollandosi il male di dosso, come “scursuna” o “serpi” che cambiano pelle. “Melquiades” è dedicata all’omonimo personaggio di “Cent’anni di solitudine”, e parla del suo vagare libero e senza schemi, ed è stata utilizzata, proprio perché simbolo di libertà di movimento, per la partecipazione del gruppo alla recente maratona musicale in favore di Patrick Zaki. “Salti nel tempo” parla di separazione, e nello stesso tempo descrive quello che avviene, musicalmente, nel brano, in cui si alternano parti con tempi diversi. “Za Monica” riprende un canto della tonnara di Favignana, preso ad ispirazione per questa sorta di preghiera, arricchita dalla presenza di un altro grande siciliano, Alfio Antico, ai tamburi a cornice, e di Simone Ardita (Orchestra Jacaranda) alla voce. “Li cristiani”, in dialetto siculo, non sono i Cristiani in senso religioso, ma in generale la gente, le persone. Questa tarantella parla di razzismo, del disprezzo verso gli “altri”, verso chiunque provenga da un posto diverso, perché ha (o si presume abbia) diverse abitudini e modi, e non importa se, per loro, siamo noi gli “altri”… Chiude l’album “Volare”, su testo di Nino Bellia, dedicata ad Angelo D’Arrigo, moderno Icaro che con il suo deltaplano volava davvero, in mezzo a falchi, aquile ed uccelli migratori, ed ha dimostrato che nulla è impossibile.
Gran bel disco, che conferma quanto di buono c’è nella meritoria opera dei Lautari. E volendo fare un paragone con quanto avviene oltreoceano, dove viene incensato ogni gruppo che riprende una certa tradizione utilizzandone gli strumenti tipici, in proporzione, qui da noi, si dovrebbero quantomeno beatificare (in vita, s’intende) i Lautari, per il loro lodevole ed incessante lavoro di ricerca, valorizzazione ed innovazione nell’ambito della musica tradizionale, portato avanti mediante l’utilizzo di una tale varietà di strumenti il cui elenco probabilmente prenderebbe un’ulteriore intera pagina, e con una tale perizia e dovizia da renderli davvero unici ed indispensabili nel panorama musicale siciliano, ma anche italiano ed internazionale.
Rino Bonina