Dopo 25 anni di carcere e con 45 giorni di anticipo. Sciolse nell’acido il piccolo Di Matteo

L’ultimo abbuono di 45 giorni ha aperto a Giovanni Brusca le porte del carcere: fine pena è la formula d’uso che chiude i suoi tanti conti aperti con la giustizia. A 64 anni l’uomo che ha premuto il telecomando a Capaci e fatto sciogliere nell’acido il piccolo Giuseppe Di Matteo è, con tutte le cautele previste per un personaggio della sua caratura criminale, una persona libera.

Anche se era un esito annunciato, la scarcerazione suscita comunque le reazioni più critiche.

I familiari delle vittime avevano già espresso le loro preoccupazioni quando si è cominciato a porre, già l’anno scorso, il problema di rimandare a casa un boss dalla ferocia così impetuosa da meritare l’appellativo di “scannacristiani”. Nel suo caso sono stati semplicemente applicati i benefici previsti per i collaboratori “affidabili”. Se ne era già tenuto conto nel calcolo delle condanne che complessivamente arrivano a 26 anni. Siccome il boss di San Giuseppe Jato era stato arrestato nel 1996 nel suo covo in provincia di Agrigento, sarebbe stato scarcerato nel 2022. Ma la pena si è ancora accorciata per la “buona condotta” dopo che a Brusca erano stati concessi alcuni giorni premio di libertà. Gli ultimi calcoli prevedevano la scarcerazione a ottobre. È arrivata anche prima.

Ora però si apre un caso complicato di gestione della libertà del boss e dei suoi familiari. I servizi di vigilanza, ma anche di protezione pure previsti dalla legge, dovranno tenere conto dell’enormità dei delitti e delle stragi che lo stesso Brusca ha confessato. Non solo ha ammesso di avere coordinato i preparativi della strage in cui morirono Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tre uomini della scorta. Ha confessato numerosi delitti nella zona di San Giuseppe Jato. Ma ha soprattutto ammesso le sue responsabilità nel rapimento e nella crudele soppressione di Giuseppe Di Matteo il figlio tredicenne del collaboratore Santino Di Matteo. 

Santino Di Matteo era, tra tutti, il depositario dei segreti più ingombranti della cosca e aveva cominciato a svelarli al procuratore Giancarlo Caselli e ai magistrati della Dda palermitana. Davanti alla prospettiva di trascorrere in carcere il resto della vita anche lui, qualche mese dopo l’arresto, ha cominciato a rivelare i retroscena e il contesto di tanti delitti e degli attentati a Roma e Firenze del 1993. Brusca non nascondeva il tormento di ripassare in rassegna i suoi crimini più odiosi e quelli di cui era a conoscenza. Ma mise da parte ogni remora quando ebbe la certezza che ne avrebbe ricavato quei benefici che ora gli hanno ridato la libertà. Dalle sue rivelazioni intanto presero subito l’avvio numerosi procedimenti che hanno incrociato pure i percorsi dell’inchiesta sulla “trattativa” tra Stato e mafia.

“Quello che temevamo da tempo si è avverato: Giovanni Brusca, il ‘macellaio’ che ha premuto il telecomando a Capaci, è libero. Lo prevede la legge, una legge che ha voluto mio fratello e che rispettiamo, ma restano il dolore, la rabbia e il timore che un individuo capace di tanto male possa tornare a delinquere. La sua collaborazione con la giustizia è piena di ombre, la stessa magistratura lo ha detto più volte. ‘U Verru’, il porco, così lo chiamavano i suoi complici, ha nascosto molte verità, specie sulle sue ricchezze che, sono convinta, non sono state confiscate interamente. Ci auguriamo che la magistratura e le forze dell’ordine vigilino: sarebbe un insulto a Giovanni, Francesca, Rocco, Antonio e Vito che possa tornare indisturbato a godere di soldi che grondano sangue”.

Maria Falcone
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