C’è un elemento decisivo: il voto sul Quirinale si intreccia con lo spauracchio del voto anticipato, quello politico. E così la nota di Zanda è in realtà un mezzo ricatto, un avvertimento a tutto il resto del Parlamento: chi è convinto di salvare poltrona e legislatura semplicemente dicendo no a Draghi presidente della Repubblica, non considera quello che accadrà un minuto dopo l’elezione del Capo dello Stato. E anzi, si legge, un voto che rompesse l’attuale maggioranza di governo di fatto la spaccherebbe senza possibilità di ritorno e a quel punto le dimissioni di Draghi non sarebbero solo “formali”, ma anche obbligate. Con tutte le incognite del caso.

Il “no” di Enrico Letta a qualsiasi candidato di centrodestra.

Non solo Silvio Berlusconi che pur non sciogliendo ancora la riserva sta di fatto congelando le possibili “trattative” tra centrosinistra e Salvini e Meloni. La condizione posta dal Pd è quella di trovare un  “nome condiviso”. Un identikit che calza a pennello, ovviamente, con quello di Draghi. E che potrebbe ricomporre le fratture attuali nella maggioranza, riformulando la squadra e “lasciando intatta la componente politica con alcuni nuovi innesti al posto dei tecnici”. Insomma, taglia corto Letta, “il prossimo presidente deve essere scelto con un accordo largo e trasversale. E non deve essere di parte: non voteremo un candidato di centrodestra”. 

Mario Draghi si dimetterà, comunque andranno le votazioni per il Quirinale. Parola di Luigi Zanda, secondo cui stratta in realtà di una “ovvia banalità”e di una “prassi istituzionale”. “Se Draghi non va al Quirinale – ricorda l’ex presidente dei senatori Pd, citato in un retroscena del Giornale – dovrebbe presentare le dimissioni da presidente del Consiglio al nuovo presidente della Repubblica. È la prassi e dovrebbe farlo anche lui”.